BlowUp (italiano)

di Stefano Isidoro Bianchi, 1998 (Italia)

 

La storia di un musicista portoghese che si rivela tra gli sperimentatori più interessanti dei nostri giorni, tra ambient, avanguardia e manipolazioni rock “La mia maniera di far musica sostanzialmente si basa sulla manipolazione dei suoni, preferibilmente usando una chitarra come sorgente di suono. La mia idea di ‘strumento’ comprende qualsiasi cosa io riesca a connettere alla chitarra. Non si tratta di ‘effetti’, per come la vedo; suono le corde, i pedali, il corpo, tutti i trucchi possibili, anche se per me sono solo ‘strumenti’.”“Discreet Music”
Rafael Toral è un musicista portoghese che vive da sempre a Lisbona, ha 31 anni e suona da quando ne aveva 16: “A sedici anni iniziai a suonare la chitarra. Restai immediatamente affascinato dalle possibilità di trasformazione del suono. Mi entusiasmai quando provai i primi effetti a pedale. Ma il vero cambiamento fu quando lessi le note di copertina di Discreet Music di Brian Eno. L’idea di una musica che non domanda l’attenzione dell’ascoltatore per essere sentita è ancora uno dei principi che mi muovono. Pensai: ‘Questa è la via da percorrere!’ Sistemi ambient auto-generantisi, un’invenzione straordinaria.”

Musica ambient, quindi, e totale devozione a Brian Eno: “Dopo tutto è stato Brian Eno a coniare il termine ambient. Una delle sue intuizioni più importanti è stata associare le possibilità delle registrazioni e manipolazioni di nastri con l’approccio di Steve Reich, dentro una musica che tende a mescolarsi nell’ambiente, qualcosa che prima aveva suggerito Satie. Trovo affascinante l’idea di una musica che si genera da sola dopo averle dato qualche piccola coordinata, lasciando che il musicista diventi addirittura come una parte del pubblico. La musica si trasforma in una presenza, una vibrazione che sta nello spazio e che tu puoi abbandonare e riprendere in ogni momento senza notare che nel frattempo hai perso qualcosa… E’ solo una parte dell’ambiente in cui ti trovi.”

Le influenze riscontrabili nella musica di Rafael non si limitano però solo alla ambient ma anche al mondo del rock. Non a caso tra i primi a notarlo ci furono, oltre allo ‘scopritore’ Phil Niblock, a John Zorn e a Rhys Chatham, i Sonic Youth, ai quali aveva spedito un nastro, che lo chiamarono a collaborare (ad esempio Lee Ranaldo nell’album Amarillo Ramp) e che poi gli hanno voluto produrre, con la loro etichetta Ecstatic Peace!, un intero album: “I Sonic Youth hanno liberato definitivamente il suono della chitarra. Hanno usato la chitarra non come uno strumento musicale da usare con le classiche regole ma come una sorgente, un generatore di suono da cui si può estrapolare qualsiasi cosa. Prima di loro solo Hendrix ha fatto qualcosa del genere. La mia percezione della musica rock come di una vibrazione elettrica astratta è ispirata dal loro lavoro.”

Il legame con la ‘cultura’ rock è quindi piuttosto forte, sebbene sia difficilmente distinguibile ascoltando i suoi album. Una delle band più importanti per quanto riguarda l’evoluzione del suono e delle manipolazioni chitarristiche sono stati i My Bloody Valentine, dei quali Rafael dice: “Adoro Kevin Shields. Credo che la sua grande scoperta siano state le tecniche di produzione che ha usato, soprattutto per quanto riguarda Loveless… Un altro carattere fondamentale del lavoro di Shields è stato mescolare un suono ambientale molto etereo e sensuale con questa grezza, cruda, violenta intensità chitarristica. Credo che tutta la generazione ‘shoegazing’ che gli è seguita ne abbia completamente perso le caratteristiche.”

Nella vita Rafael lavora come ingegnere del suono presso una stazione televisiva e per passione si è costruito uno studio di registrazione chiamato Noise Precision, dove registra tutto il proprio materiale: “Fino a ora incidere musica è stato un modo per spendere soldi piuttosto che guadagnarne. Sono però convinto che la musica non debba assolutamente aver a che fare col guadagnare soldi. La gente pensa che le Spice Girls vadano bene ed è felice di questo. E questo va bene.” Aeroplani
I suoi primi due album solisti – dopo gli inizi ‘rock’ passati in una band chiamata Pop Dell’Arte – sono entrambi opere rilassate e ambientali, tutte costruite attorno a suoni sottili e distesi, misurati ed eleganti, vicini alle esplorazioni di Thomas Köner e, naturalmente, a Brian Eno. Il primo, Sound Mind Sound Body (‘94), contiene cinque pezzi composti tra l’87 e il ‘92. L’album si apre con Aer 4, per sola chitarra (difficile immaginare lo strumento dietro questo suono tanto rarefatto), e prosegue aggiungendo solo un basso e qualche sample loopato (Loopability 1 e 2) fino alla finale AE2, eseguita live assieme ad altri 4 collaboratori. Un disco di pura ambient, come già detto, ma non solo o non semplicemente, vedi i rintocchi liquidi ed eterei di AER 7 E, dove la chitarra è ‘suonata’ e si può sentire come sequenze di note chiare e nette, non come accumulo di drones. Lentissimo, ipnotico, ultraterreno, trascendente, questo suono è pulito e puro come fosse appena estratto da una sorgente di montagna. Un’esperienza sonora, ancorché già ampiamente predicata da molti (non ultimi ‘chitarristi creativi’ degli anni Settanta come Basho, Fahey, in parte anche Kottke), affascinante come poche. L’ultimo episodio dell’album, AE2, evoca una trance di sapore mistico d’indicibile bellezza.
Wave Field esce l’anno dopo ed è interamente costruito solo con la chitarra: “Volevo creare una composizione ambient che suonasse come mille concerti rock che riverberavano da un luogo distante. L’album è un distillato di rock, come se se ne fosse estratto il succo, un’essenza fluida. Ho utilizzato materiali e ‘textures’ del rock, materiali basati sull’icona più cara del genere, la chitarra elettrica. Volevo fare un disco ambient carico delle risonanze, dello sporco e del rumore della musica rock. La musica rock non è il mio scopo, piuttosto la sua energia, elettricità, intensità. Tutto quello che ho sviluppato in dieci anni di lavoro sulla chitarra è qui dentro.” Il suono resta quindi ambientale e ‘chitarristico’ come nell’album precedente ma si fa più incompromissorio, a tratti anche chiuso in se stesso; dovendo usare ancora delle sigle dovremmo dire che si fa ‘isolazionista’, si trasforma in volute di rumore ovattato che sprigionano segnali distanti e criptici (la lunghissima Wave field 5) e s’innalza verso vette vagamente rumoristiche (Wave Field 6, certo memore delle stratificazioni dei My Bloody Valentine) fino a planare in un ossessiva modulazione di soli filtri: “Il ‘campo d’onde’ si può collocare da qualche parte nelle lontane regioni del territorio ambient, vicino alla frontiera con un’area paludosa dove le vibrazioni astratte del ‘rock liquido’ vengono sciolte da nuvole cariche di rumore che echeggiano delle radiazioni elettriche. ‘Wave Field 5’ e ‘6’ sono state registrate su hard disk direttamente dal corpo vibrante di una Fender Jaguar filtrata attraverso un wah Morley, una chitarra synth Korg (non ci sono synth, solo filtri), un equalizzatore grafico Dod, un reverbero e compressore Alesis e un equalizzatore parametrico Ashly.”
Registrato con l’accompagnamento di film di aeroplani che partono o atterrano, Wave Field è considerato unanimemente l’opera più riuscita del portoghese, probabilmente anche in virtù della sua facile reperibilità dal momento che è stata recentemente ristampata su Dexter’s Cigar. “Nell’inserto del CD ho stampato le parole ‘Suonare a volume molto basso o molto alto’. Quando viene suonato a volume alto diventa qualcosa di profondamente diverso: ondate di drones elettrici molto fisici e ipnotici che senti per tutto il corpo come un fiume in piena. Fondamentalmente ho suonato la chitarra senza toccare alcuna corda e lavorando solamente con le frequenze, usando filtri, equalizzatori e qualche riverbero. In un solo weekend ho registrato due set di drones risonanti che mi sono poi serviti come base di partenza. Più tardi ho aggiunto dei loop e delle percussioni – fatti ancora solo con la chitarra – e da lì sono partito gradualmente per comporre i pezzi. In tutto ho impiegato un anno.”

L’album è dedicato ad Alvin Lucier e ne riprende dichiaratamente gli insegnamenti. Ecco quindi un ulteriore tassello della sua teoria e pratica musicale, la composizione d’avanguardia: “Negli anni Sessanta il compositore Alvin Lucier faceva parte della Sonic Arts Union con Gordon Mumma e altri ed è conosciuto soprattutto per un brano chiamato ‘I Am Sitting In A Room’, nel quale una frase recitata veniva ripetuta e ‘loopata’ finché non diventava una semplice onda sonora. Quel pezzo per me è una pietra miliare. Lucier ha trasformato uno spazio vuoto in uno strumento. Il nastro era utilizzato solo per registrare l’acustica della stanza e per farla rimbalzare più e più volte fino a che le risonanze si rinforzavano ripetutamente. Non era mai stato fatto prima. In qualsiasi posto andiamo, ci sono frequenze che risuonano, è una caratteristica dello spazio acustico in cui viviamo. Alvin Lucier ci ha dato un modo per pensare a ciò in termini musicali. Insieme a 4:33 di Cage è il pezzo più importante della storia della musica.”

L’album successivo, Chasing Sonic Boom (vedi BU#5), è una compilation di improvvisazioni live eseguite in concerto con con Jim O’Rourke, con la violinista Jane Henry, col fisarmonicista Waldo Riedl e col chitarrista Manuel Mota (che collaborano tutti separatamente) ed è il suo album più ostico e incompromissorio. Il CD, a tratti di pesantezza intollerabile, presenta tutti i diversi aspetti della sua arte svolgendo in ogni pezzo un’atmosfera differente, dalle ipotesi minimaliste di Concorde alle dissonanze di Skyrocket, dalla astratta liquefazione di Blackbird alle distorsioni di Super Sabre. Gli strumenti sono in larga parte irriconoscibili, nascosti e sfibrati da evoluzioni e manipolazioni elettroniche, talvolta evirati dal loro suono più proprio: cercate il violino in Skyrocket, o la fisarmonica in Firebee Drone, o il piano in Aardvark, e vedrete cosa ne è restato. Due sono i pezzi eseguiti da Rafael in solitudine elettronica: l’insostenibile X-1 (“Una composizione senza chitarra per effetti chitarristici”, scrive Bill Meyer nelle note di copertina) e Super Sabre, altra mostruosa escogitazione con un referente possibile solo nelle partiture merzbowiane.

I pezzi del CD hanno tutti come titolo il nome di aerei supersonici; una fascinazione, questa di Rafael per gli aeroplani, evocata anche nei suoni, che spesso tendono a riprodurre il sibilo della partenza, del volo, dell’atterraggio (“Li amo molto. Non ti sembrano straordinari? E’ incredibile come sembra che volino così lenti mentre stanno viaggiano a miglia e miglia al minuto”). Nei forti saliscendi acustici dell’album – ad esempio nei pezzi con O’Rourke – Rafael pare divertirsi a riflettere sulla dicotomia silenzio/rumore: “La mia vita cambiò ancora quando lessi Silenzio di John Cage. Cage ha fatto fare un grande passo avanti alla musica dicendoci che non esiste nulla che si possa definire silenzio. Egli scoprì che anche in una stanza completamente isolata sarebbe riuscito a sentire il sangue circolargli nelle vene o il sistema nervoso lavorare. Questo significa che quello che siamo soliti chiamare ‘rumore’ non può essere eliminato. L’idea di ‘rumore’ è qualcosa che sta solo dentro le nostre teste. Il rumore è irreale. Potremmo definirlo esclusivamente come ‘qualcosa che non vogliamo’. Non esistono limiti all’applicazione di queste idee. La sua influenza è stata così universale che spesso dimentichiamo da dove esse provengano. Principi come ‘Il suono è la materia prima della musica, più che le idee’ sono imprescindibili per me.”

Nessuna riduzione del rumore

La discografia di Rafael non si limita però solo alle opere solistiche. Anche gli album che ha inciso in duo con Paulo Feliciano a nome No Noise Reduction, ad esempio, sono frutto di improvvisazioni: “Sia Chasing Sonic Booms che On Air dei No Noise Reduction sono registrazioni dal vivo di musica improvvisata. Il primo è essenzialmente un documento del mio modo di suonare durante quell’esatto periodo. On Air è già qualcosa di più, è una pièce di musica elettronica, non ha a che fare semplicemente con l’improvvisazione ma anche con una situazione di rischio più estremo, vale a dire improvvisare con strumenti che sono quasi del tutto incontrollabili, e trasmetterli via radio.”

Un’ulteriore indagine nei territori dell’improvvisazione, quindi, anche se in questo caso non è più il musicista a ‘dettare legge’ quanto gli strumenti stessi, che prendono la mano – letteralmente – a chi ha dato loro ‘vita’. Il CD On Air (registrato nel ‘95 e pubblicato nel ‘97), opera seconda del duo (la prima venne stampata in sole duecento copie ed è oggi introvabile), dal punto di vista del risultato finale non è molto distante dalle eterogenee collaborazioni di Chasing Sonic Boom, ma in qualche strana maniera non lo è neppure dalla ambient rarefatta dei precedenti lavori. L’album consiste di due parti divise in sei movimenti interamente dedicati alla ricerca sui suoni piuttosto che alla loro applicazione: dapprima ‘giocattoli’ elettronici e onde radio, poi chitarre trattate e completamente deformate. Un lavoro perfettamente alieno: sibili modulati per toni e intensità, feedback e frequenze altalenanti, fischi e rigurgiti frammentati, ripresi, tagliati, offesi. La parte finale soprattutto (quella con le chitarre) produce effetti lunari e straniti di cui si riconosce bene l’origine ma non si comprende la destinazione. Il suono lasciato libero di riprodurre se stesso in maniera del tutto occasionale e imprecisata, se proprio vogliamo restare nel senso di un’operazione tanto radicale quanto inammissibile al di fuori di un contesto di pura ricerca.

Anche il recente Aeriola Frequency (vedi BU#10) continua l’impervio cammino verso la totale assenza del musicista-creatore. Due sole, lunghissime suite il cui personaggio principale è la risonanza: neppure più il suono ma solo la sua ombra. Il loop di un frammento di feedback lasciato libero di reiterarsi e fagocitarsi continuamente vibrando, possiamo supporre, solo per il casuale altalenare della corrente elettrica o per le minime vibrazioni degli spostamenti d’aria. Sia come sia, un mondo dentro cui è difficile entrare ma facilissimo perdersi. Soprattutto perché l’idea aleatoria che lo motiva funziona benissimo: ci potrete leggere dietro qualsiasi cosa…

Per il futuro Rafael ci riserva ancora delle sorprese. Recentemente ha rimixato l’ottimo Plux Quba di Nuno Canavarro e sta lavorando da tempo a un progetto chiamato Bridge Music, che consiste nella registrazione di ore e ore di suoni captati da una serie di ponti che ha incontrato visitando gli Stati Uniti. Da quelle registrazioni, poi, immaginiamo che vorrà tirar fuori le sue musiche, manipolandole e reinventandole in maniera simile alle ‘telegrafiche’ manipolazioni effettuate da Alan Lamb.”Osservando un ponte, puoi immaginare che razza di sinfonia di vibrazioni lo attraversano? I ponti con una struttura metallica, soprattutto. Tutto sta nel saperne ascoltare le frequenze. Ci sono mucchi di suoni da poter carpire con dei microfoni: rumorini, echi, drones, armonie metalliche, rimbombi… E’ il traffico che li produce. I ponti sono come dei grandissimi strumenti secondo me. Col Golden Gate, poi, è stato veramente speciale perché sono riuscito ad avere libero accesso alle cabine di sospensione e ho registrato un mucchio di cose. I suoni delle frizioni che risultano dai movimenti del ponte sono meravigliosi.”

L’intervista

Quanto diresti che riprendono da Eno e quanto dalle teorie aleatorie di Cage, le tue idee?

È impossibile misurare le cose fino a questo punto… Specialmente per Cage, le cui idee e intuizioni ormai sono parte della nostra consapevolezza complessiva. Oggi le diamo quasi per scontate e ci dimentichiamo da dove arrivino. La maniera in cui mi rapporto ai concetti di silenzio, rumore, controllo, intenzione o indeterminatezza è direttamente o indirettamente collegata a lui. Visto che chiedi in particolare della sua teoria ‘aleatoria’, posso dirti che ho fatto degli esperimenti con operazioni ‘casuali’ i primi tempi, ma oggi non ne faccio più. La sua presenza sta più a livello mentale che formale.
Quello che invece mi interessa in Eno è la lettura che ha dato del minimalismo, specialmente come ha preso a prestito l’approccio di Steve Reich al processo (con i pezzi per ‘tape loops’) e l’ha applicato al concetto di musica ambientale, che non chiede necessariamente l’attenzione dell’ascoltatore. Inoltre amo la maniera in cui lui usò le idee sulla casualità in una musica che si supponeva fosse sostanzialmente ‘organica’, che in qualche maniera rispecchiasse la natura – e questo viene ancora da Cage. Sul serio: quell’uomo è stato una fonte inesauribile per molte generazioni…

C’è un significato, un messaggio da comunicare?…

No, la mia musica in verità non ha significato, nessun messaggio di alcun genere è sottinteso a quello che faccio. La ‘comunicazione’ è qualcosa che non mi ha mai interessato nella musica come forma di giudizio univoco. Mi interessa piuttosto costruire una vibrazione che offra una varietà di significati e di usi, di approcci ed esperienze di ascolto, ma in maniera aperta, non codificata. Mi interessa la soggettività dell’atto dell’ascolto, quindi per me è un dovere lasciarne aperte le porte, non caricarla di ‘me stesso’. Ogni ascoltatore dovrebbe esser libero di utilizzarla nella propria maniera, io cerco di far sì che chiunque proietti se stesso dentro la mia musica. Il mio interesse nelle forme ‘ambient’ risiede principalmente nella possibilità di esplorare differenti livelli di attenzione durante l’ascolto. La mia musica può essere usata come background o la si può ascoltare con concentrazione. È il principio basilare che abbiamo imparato da Brian Eno: “tanto trascurabile, tanto interessante.”

In questo stesso senso – “tanto ignorabile, tanto interessante” – non ti pare che la tua musica, come quella di altri artisti a te similari, si possa definire in qualche modo ‘relativistica’?… Un suono libero di fluttuare e riflettere ogni volta un aspetto diverso senza somigliare a nessuno: e che inoltre non è più ‘accademia’ ma non ancora ‘pop’ misurandosi però su entrambi i fronti…

Un’idea interessante… A me però sembra che questo ‘relativismo’ sia qualcosa di personale che un osservatore e commentatore – tu, in questo caso – immagina autonomamente. Perché se focalizzi ogni elemento, ogni artista, ogni band, ogni frammento di questa visione ‘relativista’, puoi comprendere che invece c’è qualcosa che unisce tutti, qualcosa di stabile e univoco. Capisci cosa intendo? La tua idea mi pare globale, riguarda la molteplicità, ed è difficile per me relazionarmi direttamente ad essa. È come se tu mi chiedessi se la mia casa ha una qualche somiglianza con una visione satellitare della mia città…

Intendo la libertà espressiva che vi potete permettere… È un dato di fatto che musicisti come te, Dean Roberts o Richard Youngs non siete accademici, spesso venite da esperienze ‘rock’ ma restate legati alla scena ‘pop’: le vostre etichette e i vostri distributori, la maniera in cui vi proponete nel mondo della musica, i ‘maestri’ a cui vi ricollegate idealmente… Le vostre sono musiche che attingono a tutto senza rivendicare nessuna appartenenza, e sono leggibili in mille maniere diverse… Cosa sta accadendo al pop e all’avanguardia? Stanno forse per collidere?

Be’, credo che sostanzialmente si tratti del fatto che la cultura pop è sempre assetata di novità e quello che spesso accade è che nuove esperienze e nuovi approcci vengano identificati come attitudini ‘sperimentali’ per essere accettati in seguito come degli standard. Oggi accade che abbiamo un mucchio di musicisti, con più o meno dirette connessioni col pop, che perseguono ipotesi di esplorazioni del suono e di scoperta di nuovi suoni e nuove forme musicali. La verità è che molto prima che esistesse la cultura pop c’erano già pionieri come Satie, Russolo o Cage… Quindi non c’è modo di lavorare negli stessi territori in cui essi entrarono per primi senza riconoscere il loro ruolo. Come potrei esplorare la risonanza e ignorare Alvin Lucier, o lavorare con la ambient e non avere presente Brian Eno? Finiamo sempre per tornare alla fonte di tutto…
È però interessante osservare che quando essi elaboravano le loro cose il ‘mondo’ non era quello che è oggi e quindi le generazioni più giovani possono confrontare quello che noi abbiamo imparato e poi trasportato in contesti completamente nuovi, tanto da non farlo più sembrare così vecchio… Possiamo aggiornare tutto riprendendo valori e conoscenze che inizialmente erano accademici e applicarli a nuovi contesti rendendoli ‘utili’ e significativi in maniera inattesa.
Un altro aspetto della questione è che oggi ci sono miriadi di diverse informazioni nel nostro mondo e una vera massa di musicisti che si fanno strada; l’atomizzazione degli stili e delle tendenze è sotto gli occhi di tutti, ogni piccolo gap tra i generi viene immediatamente riempito. Direi che stiamo andando verso un’estrema molteplicità, la molteplicità dei singoli individui…

E contemporaneamente verso l’acquisizione da parte delle ‘masse’ – anche se è evidente che si tratta comunque di materiali ‘per pochi’ – di concetti un tempo riservati alla ricerca degli avanguardisti…

Certo! È questo che è estremamente interessante! La strada della musica elettronica è molto lunga e ci ha permesso, attraverso i Kraftwerk, la house e la techno, di arrivare a una musica sempre più astratta e progressivamente sperimentale, tanto che oggi possiamo guardare ancora più indietro nel tempo, non solo ai suoi referenti primari come la disco, il funk o il primo rap, ma anche a Stockhausen e Xenakis. Quando arrivi lontano dal punto da cui sei partito, i riferimenti che puoi utilizzare possono cambiare parecchio, e questo è estremamente interessante. Lo stesso è accaduto a me, che osservando i Sonic Youth e i My Bloody Valentine sono arrivato ad Alvin Lucier, che apparentemente non ha molto in comune con loro ma che invece fa parte di una progressione logica. Lasciami dire inoltre che non credo che quello che stiamo discutendo ci sia del revivalismo, ci muoviamo sempre avanti…

Uno dei primi a intuire possibili connessioni e connivenze in questa sorta di ‘divulgazione’ è stato Jim O’Rourke, che ha portato semi avanguardistici nelle musica pop come pochi altri prima… Ascolteremo mai da te qualcosa di simile al suo Eureka da te?…

Oh no, è troppo difficile per me scrivere una canzone, credo che sia difficilissimo scriverne di veramente buone. Una volta Cage disse, con immensa saggezza: “Facciamo di più non facendo quello che altri stanno facendo”, e io ci credo veramente. Fa parte di una lettura del 1960, se non ricordo male inclusa in Silenzio, che si chiama “Dove stiamo andando? E cosa stiamo facendo?”. Se entrambi facciamo la stessa cosa avremo meno ‘lavoro’ prodotto che se facciamo due cose differenti…

Un altro momento topico di questa contaminazione di linguaggi è stata l’operazione che i Flaming Lips fecero con il loro album Zaireeka, un box di 4 CD che contenevano ognuno un diverso missaggio dell’opera completa, suonabili separatamente oppure in maniera multipla e casuale, in modo da avere sempre differenti versioni degli stessi pezzi… Un concetto che rimanda addirittura all’alea cageana…

Mi sono interessato in passato nella scrittura di musica che rappresentasse un processo imprevedibile, un processo che si autorigenera e appare differente ogni volta che lo suoni. Però da quando ho smesso di ‘scrivere’ la musica e mi sono direttamente interessato al suono, mi sono concentrato nel mezzo, nel media che contiene la musica. Non amo chiedere troppo ai miei ascoltatori e non gli chiederei mai di suonare contemporaneamente 4 CD su lettori diversi, anche se naturalmente quella dei Flaming Lips mi pare un’idea deliziosa… Le persone vivono delle vite intense e hanno molte cose da fare oltre che ascoltare musica. Quindi penso di poter essere più ‘utile’ se permetto un accesso molto semplice e diretto alla mia musica.

Musica’… dammene una definizione…

Per me la musica è un’attività del cervello, un’esperienza estetica che si rivolge al suono. Per avere un’esperienza musicale è irrilevante se i suoni che ascoltiamo erano originalmente intesi per esser musica oppure no. Possiamo ascoltare un disco o andare a un concerto ma possiamo ascoltare, ‘musicalmente’, anche un aeroplano che passa. Nessuna di queste esperienze è più valida di altre in termini musicali; l’unica differenza è che l’aereo non intende far musica, sta solo sfrecciando nel cielo.
Mi piace sfocare le esperienze, poter ascoltare i suoni dell’ambiente come fossero musica e trasformare in musica i suoni dell’ambiente. Sound Mind Sound Body, Wave Field e Aeriola Frequency, per esempio, possono tutti esser descritti come musica ambient, ma la ambient che cerco di produrre crea un mood ‘tranquillo’, pur avendo dentro di sé degli elementi che la disturbano. Il tentativo è cercare di mescolare questi elementi antagonisti non come suoni differenti che cozzano e stridono ma come una singola, organica entità, un suono. Credo di esser riuscito al meglio in Wave Field. Può risultare dolce o aggressivo, ma è un unico suono. È come la colonna sonora di una mente stanca che si riposa. Ci sono un mucchio di cose che accadono, un mucchio di informazioni, ma allo stesso tempo c’è un senso di profonda immobilità. Un flusso d’acqua ha dentro di sé delle incredibili turbolenze ma se ci sediamo e lo guardiamo scorrere abbiamo l’impressione che non accada poi molto. Io cerco di usare questo come modello di musica.

Quest’ultimo concetto mi pare molto appropriato per descrivere il tuo ultimo album, Aeriola Frequency… Come si arriva a comporre in questa meniera?

Secondo me comporre è semplicemente ‘stabilire un contesto tecnologico con un certo approccio estetico’. Certi materiali ‘tecnici’ utilizzati in connessione e posizionati in determinate maniere vengono utilizzati per realizzare qualcosa che abbia un senso di identità specifica. Questo può essere ‘una composizione’, e io tendo a lavorare in questa maniera per le performance dal vivo. In Chasing Sonic Booms ci sono degli esempi di questa maniera di lavorare, ad esempio i brani solistici X-1 e Super Sabre, e nella stessa maniera i due episodi di Aeriola Frequency. I lavori più recenti dei No Noise Reduction (incluso On Air) sono anch’essi fatti in questa maniera.
Le composizioni in ‘tempo reale’ e l’improvvisazione vengono elaborate in un piccolo spazio della mente che ha molto a che fare con l’indeterminatezza, con l’accettazione di eventi non prevedibili e completamente aperti a molte variabili; io mi confronto con essi ogni giorno. In studio parto da una situazione simile, cioè costruendo un ‘device’ tecnico e entrandoci dentro per ‘abitarlo’. Di solito registro una prima parte, ma da quella in avanti mi si presentano infinite possibilità, soggette solo a una piccola singola decisione. Mentre nelle performance dal vivo le cose accadono nella maniera in cui accadono, in studio ogni secondo, ogni piccolo frammento di suono è accuratamente esplorato in una miriade di opzioni.
Normalmente il mio lavoro di studio sarebbe registrare una traccia e poi processarla da diversi punti di ascolto per aggiungerle delle nuove ‘dimensioni’, dei suoni nuovi e complementari. Il risultato quasi sempre mi dà una spessa quantità di suono dalla quale cerco di estrarre un senso, una forma, per poi infine, con grande cura, selezionare e rimuovere circa il 90% di quanto ho registrato, fino a che non resta che l’essenziale. È così che ho composto Wave Field ed è lo stesso procedimento che compio per certi pezzi brevi che un giorno diventeranno l’album Violence Of Discovery And Calm Of Acceptance. È un lavoro complesso e laborioso. La musica talvolta può apparire confusa e sognante ma è sempre colma di elaborazioni successive fatte con precisione atomica. Ho impiegato un anno intero per realizzare Wave Field e ognuno di questi piccoli pezzi nuovi – tutti più o meno di tre minuti – mi prendono più o meno tre mesi di tempo. Ma ne varrà la pena, alla fine…

E che ne è del tuo progetto di “Bridge Music”?

È ancora lì che aspetta che ci inizi a lavorare sopra…